Apparentemente, gli sviluppi politici ed economici degli ultimi giorni non sembrano diversi da quelli di un mese fa.

La guerra dei dazi continua la sua sciocca partita a ping pong e la famosa inversione della curva dei tassi (ne abbiamo parlato qui) è una spada di Damocle a cui ci stiamo abituando, mentre attendiamo la scontata decisione della Federal Reserve sui tassi d’interesse.

La solita confusione di sempre, che impedisce all’economia e alla politica di prendere una direzione precisa.

Questo, in apparenza…

In realtà, proprio negli ultimi giorni alcuni elementi sono emersi da questo sfondo incerto, mostrando di essere destinati a una conclusione inevitabile che farà prendere finalmente una direzione precisa all’intero scenario.

Tre sono i fattori che, pur sembrando ancora in stand-by, in realtà hanno già imboccato una strada senza ritorno:

La guerra commerciale USA-Cina

L’economia americana

La politica dei tassi della Federal Reserve

Analizzando questi fattori, la situazione mi è sembrata così chiara da spingermi, alla fine dell’articolo, a fare per la prima volta delle previsioni sui trend che potrebbero nascere nell’immediato futuro.

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Ma vediamo anzitutto i dettagli sui tre fattori elencati sopra.

La guerra commerciale USA-Cina

Domenica 25 agosto, Bloomberg aveva scritto:

Secondo Hu Xijin, caporedattore del Global Times , la Cina “si sta seriamente preparando” a un deterioramento senza ritorno delle relazioni con gli Stati Uniti.

E non bisogna farsi ingannare dall’apparente ripensamento di Trump del lunedi successivo (26 agosto), come giustamente avvertiva la CNBC:

Trump ha detto che i funzionari commerciali statunitensi sono stati contattati da Pechino per tornare al tavolo dei negoziati. Ma il portavoce del ministero degli Esteri cinese Geng Shuang ha dichiarato di non essere a conoscenza di contatti tra le due parti.

Nonostante Trump insista nel farci sembrare questa guerra una innocua altalena di tira e molla, in realtà appare sempre più evidente che l’accordo tra Cina e USA non ha alcuna base seria di negoziazione e che ormai i due Paesi sono destinati ad allontanarsi.

Questo comporta la fine della globalizzazione e la divisione del mondo in due emisferi: Oriente e Occidente, destinati a creare due sistemi economici distinti.

Le conseguenze di questo nuovo assetto sono vaste e richiederebbero uno studio di migliaia di pagine. Mi limito a osservare, dal piccolo e limitato punto di vista degli investitori di borsa, che noi possiamo investire in titoli cinesi solo attraverso la borsa USA, perché non abbiamo accesso alle borse asiatiche. E in tale borsa l’Occidente potrebbe avere interesse a svalutare a lungo le aziende cinesi per evitare di far apparire l’economia del “nemico” troppo florida rispetto alle nostre.

Bisogna purtroppo tenerlo presente: anche se quella data azienda cinese è in perfetta salute e sembra buona per investirci sopra, non è detto che nella borsa USA non verrà manipolata a ribasso.

L’economia americana

La guerra dei dazi è solo una parte della strategia americana per ridurre il peso politico ed economico della Cina.

La guerra in Libia e in Siria, le pressioni diplomatiche su Myanmar (la questione dei Rohingia), la guerriglia a Hong Kong, i boicottaggi ai vari Paesi che aderiscono alla Nuova Via della Seta, il tentativo di confinare Huawei nell’emisfero orientale del pianeta, sono tutti espressione del disagio di una superpotenza che non riesce più a competere con il progresso tecnologico cinese.

Questo ritardo culturale e generazionale inizia a rendersi visibile nei dati dell’economia americana.

Mercoledì scorso, il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha osservato che i dati ufficiali pubblicati in questi giorni sul mercato del lavoro potrebbero essere troppo ottimistici.

Infatti, come riportato da MarketWatch:

I dati sulle assunzioni nel 2018 e all’inizio del 2019 inizialmente riferiti dal governo sono inesatti.

A marzo 2019, ci sono stati circa 501.000 posti di lavoro in meno rispetto a quanto calcolato dall’Ufficio di Statistica del Lavoro. Si tratta della più grande flessione avuta finora dalla Grande Recessione nel 2009.

Le cifre recentemente rivedute a ribasso indicano che l’economia non ha ricevuto un grande impulso dai tagli delle tasse del presidente Trump e dalla maggiore spesa federale.

Giovedì, infatti, l’istituto di analisi IHS Markit ha pubblicato il suo ultimo indice degli acquisti degli Stati Uniti (‘PMI’), mostrando che l’attività commerciale complessiva degli Stati Uniti contiene alcuni punti problematici.

Ad esempio, l’analisi ha mostrato che:

  • le nuove attività commerciali stanno aumentando al ritmo più lento mai avuto da ottobre 2009 …
  • la creazione di posti di lavoro è ai minimi di febbraio 2010 …
  • la fiducia delle imprese è ai minimi da quando esiste questo indice, cioè da luglio 2012 …e infine
  • il settore manifatturiero americano è ora in netto declino per la prima volta da un decennio a questa parte.

Questi risultati non sono motivo di panico immediato, ma indicano che la recessione è ormai una destinazione scontata per gli Stati Uniti, come lo è già per l’Europa.

Questo fatto potrebbe portare effetti imprevisti alle prossime decisioni della Federal Reserve sui tassi d’interesse.

La politica dei tassi della Federal Reserve

Lo spettro della recessione e il rallentamento dell’economia globale (ossia della Cina), sono una spinta ulteriore per la decisione della Fed di abbassare i tassi d’interesse.

Ma quasi nessuno comprende su quali basi tecniche la Fed prenderà tale decisione.

Molti credono che la Fed sia sottoposta alla pressione di Trump su questo aspetto.

In realtà, qualsiasi azione che riguardi i tassi d’interesse non può essere portata avanti in solitudine dalla Fed, ma deve necessariamente essere fatta in accordo con le altre banche centrali.

E stupisce che una cosa così ovvia sia del tutto ignorata dai media.

Il denominatore comune su cui la Fed e le altre banche centrali si basano per arrivare a una azione concordata sui tassi è il tasso d’interesse reale.

Il tasso di interesse reale è il tasso di interesse nominale meno il tasso di inflazione.

Supponiamo che il tasso nominale su un’obbligazione sia del 4% e l’inflazione è del 2%. In tal caso, il tasso reale di quell’obbligazione è del 2% (4 – 2 = 2).

Gli Stati Uniti non hanno mai avuto tassi nominali negativi (come oggi li hanno il Giappone, l’Eurozona e la Svizzera), ma hanno avuto tassi reali negativi.

All’inizio degli anni ’80, ad esempio, i tassi di interesse nominali sui titoli del Tesoro a lungo termine avevano raggiunto il 13%. Ma all’epoca l’inflazione era del 15%, quindi il tasso reale era negativo: – 2%. C’era quindi il paradosso di un dollaro molto poco costoso in presenza di tassi nominali ai massimi storici.

E oggi com’è il tasso di interesse reale?

Il rendimento alla scadenza in titoli del Tesoro a 10 anni è attualmente all’1,5% circa, ossia il più basso da luglio 2016 e quasi un minimo storico. Nel frattempo, l’inflazione misurata dal PCE (la misura preferita dalla Fed) è attualmente all’incirca dell’1,5% su base annua.

Secondo queste metriche, quindi, i tassi di interesse reali sono circa zero (1,5-1,5 = 0), quindi ancora superiori ai primi anni ’80 quando i tassi reali erano, come abbiamo detto, -2%.

Le banche centrali vogliono determinare tassi reali significativamente negativi per tutti i Paesi, America inclusa. Ed è per questo che il tasso nominale USA verrà abbassato ancora. Non certo perché “lo vuole Trump”.

Naturalmente, i tassi di interesse negativi non sono mai stati di aiuto all’economia, come si illudono le banche centrali, ma hanno solo alimentato bolle in diversi settori.

Quindi lo scenario a medio termine più probabile è quello (un pò paradossale) di una progressiva recessione nell’emisfero occidentale in cui però le borse per alcuni mesi, grazie alla riduzione dei tassi della Fed, raggiungeranno nuovi massimi storici.

Ma facciamo uno schema ancora più esaustivo di questo scenario…

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Quali trend vedremo nei prossimi mesi

Nuovi massimi nelle borse.

Come abbiamo detto, la novità storica di un’America con tassi d’interesse vicini allo zero (dicevamo che gli USA non hanno mai avuto interessi nominali negativi e probabilmente non li avranno mai) porterà le borse a nuovi massimi.

Saremo di fronte all’ultima fase della stagione rialzista decennale della borsa USA, con innesco della fase finale detta di “euforia”, in cui tutti comprano di tutto.

Per tale ragione, non vedo il motivo di mettere i remi in barca e chiudere le posizioni azionarie. Al contrario, vale la pena tenerle aperte per sfruttare l’ultima gamba rialzista, che sarà di portata eccezionale, come sempre accade nelle fasi finali di questi cicli.

Quando però a un certo punto vedremo i media occidentali ostentare fiducia indiscriminata nelle borse, sarà il momento di ridurre drasticamente le posizioni long e iniziare delle strategie short.

Aumento dei metalli preziosi?

Il paragrafo ha significativamente un punto di domanda, perché ancora non sono pienamente convinto che le banche centrali lasceranno le quotazioni dei preziosi all’arbitrio del libero mercato.

Come abbiamo spiegato in questo articolo, l’attuale aumento dell’oro oltre la soglia stabilita dalle banche centrali, pari a 1370 dollari l’oncia, non vuol dire necessariamente che queste ultime non siano più in grado di controllarne il prezzo a causa della spinta incontrollata dei mercati che vogliono difendersi dalle politiche monetarie della Fed.

Le banche centrali potrebbero semplicemente aver deciso di portare la quotazione massima consentita dell’oro a una soglia più alta della precedente.

Se l’oro fosse libero di avere una reale quotazione di mercato, dovrebbe arrivare almeno a 2000 dollari l’oncia, per compensare la svalutazione delle valute fiat (dollaro, euro, yen ecc.).

Ma non so se le banche centrali abbiano in mente proprio questa soglia massima, oppure una soglia più bassa.

Per questo, anche se è indiscutibile che è arrivato il momento di aprire posizioni nei metalli preziosi, lo farò scegliendo titoli minerari ancora sottoquotati (sembra strano, ma ne esistono ancora…).

Riduzione delle commodities e del petrolio.

La recessione cinese comporta un consumo minore di tutte le materie prime.

Pertanto, anche se le commodities sono ai minimi storici da anni, non sembra arrivato il momento del loro riscatto.

L’unica spinta a rialzo potrebbe essere determinata indirettamente da un crollo del valore del dollaro. Ma bisogna considerare che di fatto il valore del dollaro (come di qualsiasi altra valuta fiat) è già ai minimi da anni. Ormai il rapporto fra il prezzo della valuta e quello della materia prima è già stato alterato in modo irreversibile e difficilmente potrà essere determinante sulle quotazioni di petrolio e materie prime.

Trovo che i trade sul petrolio e le materie prime siano troppo soggetti alle volubilità della politica per poter fare delle previsioni che consentano un investimento su questi asset.

L’enigma dei titoli cinesi.

Come abbiamo spiegato in questo articolo, la finanza internazionale aveva un piano per inserire montagne di liquidità nei titoli cinesi, rendendoli sulla carta uno dei migliori investimenti del prossimo decennio.

Ma a un certo punto è apparso chiaro che l’America di Trump aveva piani del tutto diversi, come abbiamo spiegato più sopra.

Personalmente sto riducendo le mie posizioni “asiatiche”, in attesa di vedere se le borse occidentali saranno più orientate a manipolare a ribasso i titoli cinesi, oppure (magari con l’elezione di un nuovo Presidente in USA) i piani dell’FMI e della finanza globale riprenderanno vigore.

In questo momento sono in una fase di studio e analisi.

Come puoi vedere, la situazione è complessa e i fattori in gioco sono controversi.

Resta dunque in contatto con me per ricevere le prossimi analisi mie e del mio team. Ti avviserò in tempo ogni volta che ci sarà qualche importante cambiamento nei trend della borsa USA e di tutte le borse globali.

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Il team di Segnali di Borsa